Mario Sesti racconta la sua amicizia con Bernardo Bertolucci

Mario Sesti racconta la sua amicizia con Bernardo Bertolucci

Mario Sesti, affermato critico e documentarista, ha presentato a Cannes 2019 il documentario “Bernardo Bertolucci: No End Travelling” (qui). In occasione del confronto su questo suo ultimo lavoro, Sesti ci racconta la sua amicizia con il cineasta parmense.

Parliamo di quest’ultimo documentario, presentato a Cannes quest’anno. Il corpo centrale del film è la fusione di due interviste che avevi sostenuto al cineasta. Visto la scioltezza della cosa suppongo non sia stata faticosa come operazione.

Invece sì, perché nel montare un’intervista non sai mai quali parti tagliare o quali aneddoti più interessati da lasciare. Con una di quelle interviste sono stato però fortunato. Perché poco prima Bertolucci era reduce da gravi problemi di salute, quindi si sentiva particolarmente ispirato nel tirare fuori ricordi e aspetti della sua carriera dei quali non aveva mai parlato prima d’ora. Con nessuno, neanche con sua moglie Claire. Poco dopo la sua morte avvenuta a novembre ho sentito la necessità di recuperare questo materiale. Pensavo fosse il momento giusto.

Il documentario ha grandi meriti artistici. Si avvicina molto allo spazio del video essay, nonostante i suoi cinquanta minuti di durata. Quale il motivo di questa scelta fuori dagli schemi biografico-documentaristici? Evitare la ridondanza nel parlare del regista?

Esatto. E poi avevo voglia di sottolineare molti aspetti intimi di Bernardo, sotto certi dettagli visivi, il suo modo di muovere le mani, di parlare e di ricostruire le storie. Ma anche l’entusiasmo e un pizzico di vanità che da sempre contraddistingue i registi. Bertolucci è un cineasta che con il cinema poi ha fatto come Maradona o Pelé. Mi sembrava giusto fosse lui a raccontarsi, lasciando lo spettatore alla bellezza e alla sorpresa di scoprire una autobiografia così unica. A Cannes fortunatamente ha avuto un ottimo riscontro, la sala era gremita, alcuni lo hanno addirittura definito “lezione di cinema”.

Partiamo dalle origini, quando hai cominciato ad affacciarti al cinema di Bertolucci?

Il primo film che ho visto del regista è stato “Strategia del ragno” in televisione. Attorno al 1974 poi ho avuto modo di vedere “Ultimo tango a Parigi” prima del sequestro, lo rividi a Parigi nel 1979 quando in Italia era impossibile vederlo. La mia fortuna è stata quella di vederlo insieme al pubblico del suo tempo, quello che gli diede il grande successo. Ero molto giovane e per la mia generazione la cinefilia era inevitabile, andare in sala era parte del nostro vissuto, non c’era neanche bisogno di essere cinefili e dichiararlo, veniva spontaneo! Poco per volta ho cominciato a coltivare la necessità di scrivere per il cinema. Grazie al lavoro da critico cinematografico quindi ho scoperto quanto fosse importante per me essere cinefilo.

Se non sbaglio in “Ultimo tango a Parigi” una sequenza interpretata da Laura Betti è stata tagliata. Ma è andata perduta?

Si, anche perché a quei tempi non vi era abitudine di conservare gli scarti di lavorazione per eventuale uso in un futuro. Come anche la scena finale di “8 ½” di Fellini al quale ho dedicato il documentario “L’ultima sequenza”.

Mario Sesti racconta la sua amicizia con Bernardo Bertolucci

E nel 1990 finalmente il tuo incontro con Bertolucci del quale parli anche nel documentario.

Si, anche se c’è un aneddoto di cui non ho parlato ancora. Dopo quella mia intervista su L’espresso Bertolucci aveva contattato Enzo Siciliano, suo amico e critico letterario della mia stessa rivista, chiedendogli: “ma chi è quel cinefilo che sa tutto di me?” Era rimasto folgorato dalla mia preparazione, anche perché non è detto che un giornalista debba sapere tutto del cinema, e in me vedeva che come cinéphile gli assomigliavo. Quel suo cercarmi mi aveva fatto fare una bella figura. E ricordo che quell’intervista era molto ambiziosa, Bertolucci voleva articolarla a mo’ di dizionario, partendo ad esempio dal termine “attore”, rispondendo sulla sua visione, e via dicendo.

Quindi da quel giorno si è consacrato il tuo rapporto con lui?

Certo, insieme abbiamo tenuto vari incontri alla Festa del Cinema di Roma. Spesso nel periodo del Festival invitava a cena me e i registi americani ospiti della rassegna. Siamo quindi andati da lui con Jonathan Demme (che lui amava alla follia), Arthur Penn, i Fratelli Coen. Avevamo tenuto anche un bell’incontro con Wim Wenders. Già prima della nascita di questa manifestazione avevo organizzato con lui altri incontri, nei licei ad esempio. Interessanti gli incontri nei quali lo abbiamo messo a confronto con altri artisti come Patti Smith, Gérard Depardieu, Marco Bellocchio, ecc… Ovviamente non poteva non nascere l’amicizia. Gli facevo vedere spesso i lavori che svolgevo, i documentari che giravo. Su “L’ultima sequenza” ricordo la sua osservazione: mi disse “hai montato la panna” che interpretavo come costruire tutte le ragioni di attenzione possibili su un solo argomento. Aveva amato molto anche “Fiamme di Gadda” sullo scrittore romano e il mio libro su Germi. Era molto dinamico e vivace, anche negli ultimi tempi quando le sue condizioni di salute non erano per nulla ottimali.

Lui ha iniziato a soffrire di salute già dai tempi di “The dreamers” infatti.

Anche prima in realtà. Attorno alla metà degli anni ’90 aveva manifestato i primi segni evidenti. La causa era stata l’esito infausto di un’operazione alla schiena che lentamente ma inesorabilmente lo ha portato all’immobilità.

Hai mai assistito alle riprese di uno dei suoi film?

Sono stato soltanto sul set de “L’assedio” nel 1998, anche per il fatto che a quei tempi lavoravo in ufficio a Mediaset.

Che rapporto aveva Bertolucci con la musica? Si parla poco dei suoi gusti musicali.

Bernardo era un uomo della sua generazione. Amava molto il rock, poi una certa sperimentazione, infatti per “L’Ultimo Imperatore” ha scelto come autore della colonna sonora Ryūichi Sakamoto, musicista giapponese che stimava. Amava curiosare molto con il mondo della musica. Come tutti gli emiliani aveva poi un buon rapporto con l’opera lirica, il melodramma, e questo lo ha mostrato anche in alcuni film come “Prima della rivoluzione”.

Qual è stato il vostro ultimo incontro?

È avvenuto in occasione della proiezione del film “Da’wah” (2017), un documentario di Italo Spinelli dedicato alla scuola coranica. Mi aveva colpito molto, in occasione della proiezione Bernardo era con noi.

Prima di morire Bertolucci era intenzionato a tornare ancora dietro la macchina da presa?

Si, ne stava scrivendo un altro, per un po’ di tempo se ne è parlato. Ma onestamente ne so veramente poco. So invece di qualche suo progetto non andato in porto. A lungo aveva pensato a “Hammett”, che è stato poi girato da Wim Wenders nel 1982 per la produzione di Francis Ford Coppola.

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