L’odio, 25 anni dopo le banlieu parigine di Kassovitz si specchiano nel caso di George Floyd

L'odio

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cade, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.” – L’odio

Naturalmente vanno fatti molti distinguo fra L’odio (trailer), seppure basata parzialmente su fatti reali, che lancia a livello internazionale Mattieu Kassovitz ed il caso di George Floyd. Naturalmente le analogie son prodotte dalle coincidenze della vita piuttosto che da una qualche occulta regia ed ovviamente la storia si verifica e si ripete perchè alcune dinamiche sociologiche e forse perfino antropologiche sono sempre le stesse e portano più o meno sempre allo stesso finale.

La storia della cultura afroamericana è piena zeppa di precursori del caso di George Floyd così come la Francia ed i suoi disordini nelle perfierie disagiate. Volendo scomodare qualche altro classico si può pensare al cult di Spike Lee Do the right thing – Fa la cosa giusta oppure usare come ulteriore testo di riferimento il recente Les miserables di Ladj Ly. Resta il fatto che esiste una sorta di equazione sociologica ritornante con cui siamo costretti a fare i conti con una notevole frequenza e che sembriamo incapaci di risolvere in modo pacifico ed evoluto.

Esattamente 25 anni fa il regista francese Mathieu Kassovitz raccontava la storia delle “Banlieu” parigine. In meno di dieci anni la sua storia si avverò parzialmente in Francia ed oggi la storia sembra ripetersi negli Usa. L’odio razziale, lo sfruttamento, la violenza che scaturiscono dal disagio e dalla rabbia, prima o poi si fanno avanti e non si può che ripensare alle prime parole del film: il problema non è la caduta ma l’atterraggio.

Il film di Kassovitz racconta venti ore della vita di tre giovani sbandati proletari: un ebreo bianco, un maghrebino ed un africano che vagabondano per la Parigi notturna in cerca di vendetta per un sedicenne di colore picchiato a morte dalle “guardie”. Mentre le Banlieu (i quartieri proletari di Parigi) bruciano, e le forze antisommossa della polizia organizzano cariche a volontà, i tre protagonisti lontani dal loro “ghetto” disturbano un vernissage, tentano di rubare una macchina e si confrontano con la paura e l’indifferenza del parigino medio per il quale sono solo “spazzatura”.

Due dei tre protagonisti subiscono verso la fine del film sevizie gratuite ed ingiustificate da alcuni poliziotti razzisti con il solo scopo di educare un loro collega su come si torturano i prigionieri senza danni irreversibili.

In una scena irreale ed intensissima due dei protagonisti si ritrovano in una stazione deserta, un ambiente asettico e silenzioso dove improvvisamente compare un uomo di mezza età che si lascia trasportare dalla scala mobile, passivo, indifferente, nemmeno li guarda o li saluta, la scala mobile lo porta dai protagonisti che ai suoi occhi sembrano invisibili, a quel punto uno dei protagonisti spiega all’altro: “Guardalo ‘sta pecora rimbecillita dal sistema, guarda quello con la sua aria da stronzo, tutto bellino con il suo giubbotto di culo di capra… è la razza peggiore! Li riconosci! Sono quelli che non muovono un passo sulle scale mobili, che si lasciano trasportare dal sistema, sono quelli che votano Le Pen ma che non sono razzisti, sono quelli che vanno in sciopero quando gli si ferma l’ascensore… il peggio del peggio!“. L’uomo raggiunge i due protagonisti alla fine della scala mobile ed indifferente li sfiora come se non esistessero, il protagonista di colore quando gli sussurra ad un orecchio: “Razzista“.

Noi italiani siamo come il francese trasportato dalla scala mobile quando si tratta di extracomunitari? Gli americani sostenitori di Trump sono come il francese passivo? Il film di Kassovitz centra l’obiettivo dell’odio razziale e del disagio sociale e si rivela un film prezioso sempre adatto al contesto, sempre attuale, sempre efficace per definire ed evidenziare la società ad orologeria che stiamo costruendo. Il caso di George Floyd e le sue conseguenze mediatiche e sociali, forse sono sintomo di un male internazionale, la prima fiammata di un disagio che va risolto non con la censura o con la violenza, ma con la politica e la riforma sociale, forse Spike Lee ci aveva messo in guardia qualche anno fa con il suo mirabile BlacKkKlansman (di cui abbiamo parlato qui).

Forse non è bastato, forse non basta mai, forse siamo come la società di cui parla L’odio e fingiamo di ignorare il problema fino a quando non siamo costretti dalla rete e la televisione ad ammettere che c’è ancora e non lo abbiamo superato. Forse è proprio a questo che servono film come L’Odio e Fa la cosa giusta a ricordarci che la maggioranza di noi sussurra a se stessa “Fin qui tutto bene…” ma prima o poi dovremo atterrare.

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