Little Joe, la recensione: una perturbante riflessione sul cinema

Little Joe

Tra horror e fantascienza, Little Joe (qui il trailer) si apre fin da subito come un film ambiguo, con molteplici riferimenti e spunti di riflessione. Coproduzione tra Austria, Regno Unito e Germania, fin dai titoli di testa, nella loro grafica e nel loro movimento distorto ed eccessivamente lento, cattura lo spettatore in un gioco ineluttabilmente perturbante.

La trama del film, diretto e scritto da Jessica Hausner, è alquanto semplice: una ricercatrice botanica, Alice (Emily Beecham, vincitrice della migliore interpretazione femminile a Cannes nel 2019) cerca di inventare, tramite l’ingegneria genetica, una pianta che possa aiutare le persone a essere felici. Il fiore, chiamato Little Joe, in onore del figlio della scienziata, ha bisogno di calore, affetto e parole. In cambio di ciò, la pianta rilascia ossitocina. Quest’ultima è la sostanza liberata nella donna dopo il parto e serve a creare affettività ed empatia con il bambino. Inoltre, favorisce la monogamia e la creazione di rapporti stabili. Little Joe, così, diventa un surrogato dei rapporti interpersonali, dei rapporti reali, che trasforma in un rapporto asfissiante e alienante. Rapporto che il film collega a diverse tematiche: la maternità di una lavoratrice, ma anche il rapporto con le macchine e con il cinema stesso (d’altronde analogon o surrogato della realtà).

L’opera della Hausner si mostra fin da subito ricca di collegamenti audiovisivi tematici e iconici. Il più evidente è L’invasione degli ultracorpi. Dalla pellicola del ’56 riprende la tensione ritmica, ma anche l’idea di un qualcosa che pian piano si insinua dentro una personalità lasciandone una copia identica ma vuota. Il rimando più sottile invece è con una puntata di Star Trek: Al di qua del paradiso. La serie fantascientifica è in primis richiamata esplicitamente con l’enfatizzazione visiva delle spore. In secondo luogo, Little Joe, come la puntata di Star Trek, s’interroga su come possa essere nociva una continua sorta di euforia. Un’euforia che lentamente e violentemente uccide ogni tipo di progettualità (enigmatica, in tal senso, la ripresa delle formiche).

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Il tema della violenza trova, nell’opera, un forte riscontro con La teoria dei colori di Goethe, che non a caso provava estremo interesse per la botanica. Il lungometraggio, infatti, si incentra morbosamente sul rosso (lo stesso colore di Little Joe). Colore che cannibalizza, nel giro di poche sequenze, qualsiasi altro colore (specialmente l’azzurro, non a caso associato alla tranquillità). Secondo la simbologia dei colori, il rosso è associato alla violenza e all’aggressività. È il colore del sangue e ciò rivela, già a livello istintivo, la natura del fiore stesso. Inoltre, il rosso ha sulla vista un effetto stimolante anche a livello adrenalinico. Ciò aiuta dunque ad aumentare il clima di tensione di Little Joe insieme alle tecniche di ripresa utilizzate.

Il film, infatti, si articola all’interno di un collage di inquadrature che ragionano ininterrottamente sull’identità stessa del linguaggio filmico. Linguaggio caratterizzato da uno sguardo freddo, calcolatore e indecifrabile: lo sguardo di una macchina. I frame, spesso anomali, ricordano le telecamere di sorveglianza (come la scena rotatoria d’apertura) o la lente di un microscopio. Uno strumento scientifico che scava in profondità. Tale funzione si aggancia, in una possibile lettura, alle sequenze che vedono la protagonista andare in cura da una psicologa. Quest’ultima è convinta che Alice viva inconsciamente il suo doppio ruolo di madre e ricercatrice con estremo disagio e tensione, in un rapporto estremamente asfissiante con se stessa. Rapporto col sé che ricalca il legame estraniante e alienante che Little Joe instaura con le persone, tanto da far dubitare, alla fine dell’opera, sulla realtà di ciò che si è visto, anche grazie all’enigmatico voice over finale.

Little Joe, che vede spiccare tra i suoi attori anche Ben Whishaw (Bright Star, Cloud Atlas, The Lobster, Skyfall, Spectre, No Time to Die), è un film tra l’horror e la fantascienza che ha come obiettivo la natura umana e cinematografica. È un’opera che si fa forza grazie alla sua estetica e a un attento studio di tutto ciò che compone il cinematografico: colori, inquadrature, manipolazione del materiale, rimandi mediatici. Le inquadrature del film si muovono sullo schermo focalizzandosi su dettagli privi di senso, tagliando invece fuori umani o discorsi fondamentali. Viene messa in atto una manipolazione audiovisiva (richiamata anche apertamente a livello narrativo). Manipolazione, d’altronde, simile a quella attuata da Little Joe sul comportamento umano.

Little Joe conduce lo spettatore a riflettere, durante e dopo la visione, sulla realtà stessa e sulla natura filmica. Amplificando al massimo le potenzialità del cinema, rende al massimo un’epoca ricca di disagi e tensioni, di relazioni reali e visioni meccaniche, fredde e calcolatrici.

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