LAND OF MINE – ESPLOSIONE DI SUSPENSE

Silenzio, profondo silenzio. Si sente solo un lieve ansimare che lentamente si fa più incalzante. Poi, all’improvviso… BOOM! La violenza esplode nelle prime scene e la sua deflagrazione coinvolge direttamente lo spettatore, dando inizio allo sviluppo di quell’angoscia che lo accompagnerà per tutto il film.

L’incipit di Land of Mine – sotto la sabbia  di Martin Zandvliet si fa perfetta rappresentazione dell’intero film. L‘intreccio ruota attorno ad un gruppo di soldati tedeschi che, finita la seconda guerra mondiale, sono catturati e obbligati a disinnescare le mine nascoste sotto la sabbia della costa danese, lasciate lì dai nazisti stessi in previsione di uno sbarco alleato. Solo dopo aver portato a termine tale compito potranno tornare in patria. I soldati in questione però, non sono altro che un gruppo di ragazzini chiamati alle armi da Hitler nell’ultima parte del conflitto, vittime designate all’espiazione delle colpe di un intero popolo.

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Avvertito dalla sequenza iniziale del film, lo spettatore sa che presto una mina esploderà, sa che la prudenza dei quattordici ragazzi non garantirà la loro salvezza perché le mine, sineddoche della guerra, non conoscono tempismo o giustizia, ma solo estrema voracità ed insensatezza. La suspense, sapientemente costruita grazie alla ripetizione quasi ossessiva dell’atto del disinnescare, proietta quell’ansimare udito nei titoli di testa direttamente in sala, divenendo sensazione fisica di disagio. Il sudore ed il fatale tremolio delle mani dei soldati viene vissuto sulla pelle dello spettatore, che si aggrappa ai braccioli della poltrona tra ansia, timore ed agitazione, ponendosi un’unica, brutale, domanda: «chi sarà il prossimo a saltare in aria?». I primissimi piani sui volti dilaniati dalla paura suscitano pietà e compassione, e alternandosi con campi lunghissimi in cui l’uomo perde la propria fisicità e la propria connotazione, producono una situazione di stallo, in cui a predominare è l’indeterminatezza.

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In questo stato di perenne incertezza ed attesa, anche il giudizio etico rimane sospeso. La guerra ha cancellato il confine che separa vincitori da vinti, vittime da carnefici, ponendo tutti sullo stesso piano e mettendo in evidenza l’ineluttabile fragilità umana, tanto da poter far dichiarare nel film «se sei grande abbastanza da andare in guerra, lo sei anche per riparare a ciò che hai fatto». La condanna in sé viene dunque rimandata, la retorica è messa da parte, lasciando il posto alla sola volontà di storicizzare e documentare la disumanità a cui il conflitto mondiale ha portato. Sullo sfondo rimane un barlume di coscienza, la battaglia interiore del sergente danese Rasmussen, che deve decidere se perseverare con l’odio verso i soldati nazisti o avere pietà e compassione per quei ragazzi, la cui unica colpa è in fondo quella di essere tedeschi. Il contrasto tutto interno al sergente esplode visivamente negli accostamenti dell’alienazione dei protagonisti con un’ambientazione idilliaca ed incantevole, salvo nascondere due milioni di mine.

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L’arco di trasformazione del personaggio di Rasmussen, lascia sperare nel ritrovamento da parte dell’uomo della sua morale ed etica, nella possibilità per quei ragazzi di tornare nella propria patria per ricostruirla dalle macerie della guerra, pur se le loro notti – e con loro forse le notti della Germania intera – saranno per sempre scandite dal fragore di quelle esplosioni.

Gianluca Badii

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