L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA – IL MAGNIFICO STRANIERO SECONDO KAURISMAKI

“Kaurismaki è il nuovo erede di Chaplin”. Così recita una delle recensioni straniere del nuovo film del regista finlandese, in seguito usata come slogan per il trailer italiano. Senza ombra di dubbio l’estetica delle macerie e il riscatto dei meno abbienti sono stati sempre temi ricorrenti nella cinematografia di Kaurismaki, sia quando questi non faceva che rielaborare letteratura mondiale (nel caso di Delitto e castigo del 1983) oppure quando sviluppava sceneggiature originali come Ombre nel paradiso (1986) o La fiammiferaia (1990). Il punto di vista della storia da parte dell’anti-eroe quindi l’ha fatta sempre da padrone nei suoi lungometraggi. Con questo suo nuovo L’altro volto della speranza (Toivon tuolla puollen) si sente tuttavia l’ambizione da parte del regista, da regista e da intellettuale, di voler imprimere la sua visione su un avvenimento mediatico di indubbia importanza quale il conflitto in Siria e il conseguente esodo della sua popolazione, tutto visto attraverso gli occhi di un clandestino di quel paese (uno Shervan Haji in gran forma), che nascostosi in un bastimento sepolto in una montagna di carbone, sbarca ad Helsinki, vedendola già dopo pochi minuti come la sua America. In tale scelta di script si legge anche una sfrontata apologia della Scandinavia come ombelico di civiltà.

Kaurismaki espone la visione delle vicissitudini emigrative (le fughe attraverso i Balcani, il bullismo degli estremisti nazionalisti nei confronti degli extracomunitari, ecc…) in un pastiche cinefilo e indubbiamente celebrativo, debitore del realismo chapliniano (con echi da L’emigrante [1917], ma anche dal più recente Verso l’Eden [2009], di Costa-Gravas) ma non per questo non ripetitivo e prevedibile. Specialmente nella seconda parte, come nella sequenza al ristorante nella (fallita) preparazione del sushi, alcune gag risultano decisamente ovvie e convenzionali, ma almeno per quanto riguarda i momenti di sventura del protagonista il cineasta finnico non ricorre alle frasi-effetto, o a toni ridondanti di movimenti di macchina (quest’ultima molto spesso fissa e intimista nel suo uso di primi piani e dettagli). E malgrado altre disinvolte lezioni di regia autoriale, quale l’uso di long-take di circa tre minuti o la quasi totale assenza di musica extra-diegetica, non sembra in grado di colmare alcune vistose debolezze di sceneggiatura e anche una scarsa lucidità nella rilettura personale della contemporaneità che fa da sfondo al vissuto personale del protagonista. Non sono presenti nemmeno elementi da instant movie di grande efficacia e il blocco narrativo finale, con il protagonista intento esclusivamente a salvare il futuro di sua sorella (incurante di una coltellata inflittagli da un teppista poco prima), risulta decisamente sbrigativo al fine di dare un giudizio morale conclusivo.

Kaurismaki ci lascia quindi ampie possibilità di interpretazione per quanto riguarda la scena finale e l’ipotetico futuro del suo anti-eroe. Rimane ad ogni modo un finale aperto, per alcuni aspetti sconclusionato. Nonostante ciò, rispetto al precedente Miracolo a Le Havre (2011), allo spettatore resta impresso un impianto narrativo più concreto nella rappresentazione degli eventi singoli che si svolgono nel film, e un maggior numero di scene-madri: come probabilmente avrebbe fatto Pasolini.

di Gianmarco Cilento

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