La Verité, la recensione del film di Hirokazu Kore’eda

La Verité, di Hirokazu Kore'eda

Parigi. Juliet Binoche guarda nel vuoto. Alberi. Alberi che si preparano al vestito invernale. Raccordo espressivo con Catherine Deneuve. Madre e figlia unite dallo stesso sguardo. Una poesia di ambiente, colori e inquadrature, immerse in una sospensione di foglie che cadono e tartarughe che mangiano. «La poesia nel cinema è necessaria, che si tratti di banalità o violenza», afferma, con uno sguardo quasi vitreo e perso, Fabienne (Catherine Deneuve), attrice anziana, in lotta tra il passato e il presente, rappresentati da un’attrice più giovane, fantasma suicida di una vita che non vuole uscire dalla porta. Tra scatti che cercano di cogliere una realtà fragile. Fragile come la brezza di una mattina di pioggia desaturata, che fa da velo impolverato alla vita e alla verità, di cui la figlia di Fabienne, Lumir (Juliet Binoche), non vede neanche l’ombra, incastrata in un rapporto, quello madre-figlia, che pare un vetro appannato, senza anima e senza corpo. Un rapporto in cui si cerca una verità, che però Lumir fa fatica a vedere e in cui Fabienne non crede. «La verità non appassiona».

Con una fotografia silenziosa di personaggi che arrancano e affannano nel loro vano tentativo di andare avanti, persi in un silenzio che sembra soffocarli, ma da cui sono circondati, il film, diretto e scritto da Hirokazu Kore’eda, mostra la presenza dell’assenza di una qualsiasi verità. Assenza a cui i protagonisti cercano di opporsi in una trasformazione del dolore in arte. Emerge un’opera popolata da fantasmi e da corpi privi di realtà, incastrati nelle pieghe di un mondo, quello della villa di Fabienne, dove si svolge la maggior parte del film, recluso, in cui, in ogni angolo, si cela una prigione, pronta a esplodere per le urla silenziose che si celano al suo interno. In questo contesto, la regia dell’ex vincitore della Palma d’oro a Cannes decide di creare, grazie anche al supporto della fotografia e della scenografia, un effetto di distanza e freddezza, che permette allo spettatore un’analisi meticolosa e voyeuristica dei rapporti umani, del cinema e della verità stessa.

Una verità che affiora nelle nevrosi tipiche del cinema francese contemporaneo, ma che sono rappresentate con uno stile registico, che segue le fila di un ritmo cadenzato e quasi rituale di una realtà esterna a quella occidentale, che trova il suo perché nelle origini dello stesso Kore’eda, ma che, allo stesso tempo, instaura una perfetta simbiosi con la Nouvelle Vague stessa. Nouvelle Vague che emerge dalle citazioni d’inquadrature e situazioni di uno dei suoi autori più contemporanei, ovvero Olivier Assayas, di cui il regista nipponico riprende scenografie e inquadrature, come quelle degli alberi autunnali, presenti anche in Personal Shopper, ma anche l’ambiente interiore, il dramma dei suoi personaggi, che trova le sue radici in Sils Maria. Film, quest’ultimo, che, come La Verité, si pone come unico mezzo d’autoanalisi e rilettura del cinema stesso, della propria identità e dei rapporti umani, che, in entrambe le opere, ne escono dolorosamente mutilati. Mutilati in ambienti che richiamano la poesia, ma di cui non hanno l’anima.

La verité (qui il trailer) è una sinfonia sui sentimenti, sui rapporti personali e sul cinema. Tutti aspetti che, annaspando, ricercano una verità. Una verità che, alla fine, i personaggi accettano, in un’inquadratura lontana e distaccata, essere un qualcosa di irraggiungibile, come un’essenza vestita da fantasma, che si allontana nel buio di un sospiro, che termina in un malinconico sorriso. Che trova la sua conclusione in una Juliet Binoche che guarda oltre, oltre la camera da presa, dove la verità è un segreto custodito negli alberi degli inverni parigini, che il cinema può solo provare a inquadrare dall’alto e con distacco.

Il film sarà nelle nostre sale a partire dal 10 ottobre.

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