La mia vita da zucchina, la recensione del film su Amazon Prime Video

La mia vita da zucchina (trailer) è l’adattamento del romanzo “Autobiografia di una zucchina” di Gilles Paris, e segna l’esordio nel lungometraggio di Claude Barras. Presentato alla 69ma edizione del Festival di Cannes nella sezione Quinzaine des Realisateurs, e candidato all’Oscar come miglior film d’animazione nel 2017, La mia vita da zucchina, realizzato in stop-motion, è un gioiello dell’animazione, un colpo di fulmine che arriva dritto al cuore, perfettamente in equilibrio tra serietà e delicatezza.

Icare, soprannominato Zucchina, uccide involontariamente la madre alcolista e viene portato dal sensibile poliziotto Raymond in un istituto per bambini, dove farà la conoscenza di Simon, Ahmed, Jujube, Alice e Beatrice. A sconvolgere il piccolo Icare, è l’arrivo di Camille, rimasta orfana di entrambi i genitori. È amore a prima vista, ma Camille rischia di essere affidata alla zia che la vuole con sé per ottenere l’assegno di mantenimento

Ci sono voluti otto mesi di riprese per realizzare La mia vita da zucchina. 62 scenografie e 53 marionette per quattro secondi di film al giorno. A questo lasso di tempo si aggiungono altri otto mesi di post-produzione. Un lavoro enorme, che ha richiesto moltissima pazienza, e che ripaga in pieno. L’inizio è folgorante: l’uccisione involontaria della madre, a cui si aggiungono una serie di dettagli significativi (l’aquilone, le lattine di birra) mettono i campo alcuni dei temi cardine che verranno affrontati nel corso della pellicola. La ricerca dell’amore e dell’affetto, il trauma, il dolore.

La maggior parte dei personaggi del film si sentono soli e i piccoli protagonisti sono quelli che devono fare i conti con un passato familiare traumatico: chi ha avuto genitori alcolizzati, chi drogati, chi è stato vittima di abusi sessuali da parte del padre, e chi ha assistito a un omicidio. Eventi che fanno rabbrividire, ancor di più se si pensa che a viverli sulla propria pelle sono stati dei bambini. Ma il film evita qualsiasi enfasi retorica, non ricerca mai la lacrima facile. Tutto è trattato con un serietà ma anche con una sensibilità e una delicatezza disarmanti.

Ciascun tema viene affrontato direttamente, preso di petto, ma sempre con uno sguardo ad altezza bambino. Uno sguardo non infantile (nel senso negativo del termine) ma carico di umanità, che ci ricorda come anche le domande più complesse emergano con grande semplicità, non solo nella fase adulta, ma fin da piccoli. Domande alle quali si dovrebbe rispondere con la massima onestà possibile, tenendo sempre conto della realtà e dei sentimenti chi ci sta davanti. Esemplare sotto questo punto di vista la scena della spiegazione del rapporto sessuale che Simon fa a Jujube, con quest’ultimo preoccupato che “il pisellino possa esplodere”.

Nucleo centrale, attorno a cui tutto ruota, diventa il bisogno di dare e ricevere affetto e che riguarda tanto i bambini quanto gli adulti. A partire da Icare, che vorrebbe tornare a casa con la madre e che dice:  <Lei beveva molta birra, ma faceva un buon purè>; fino al poliziotto, rimasto solo dopo che il figlio se ne è andato e desideroso di avere una famiglia. Una ricerca d’affetto che può portare alla costruzioni di nuovi, solidi legami che vanno oltre quelli meramente di sangue (la zia di Camille, che vuole che la nipote vada a vivere con lei solo per i soldi, è l’esatto opposto di quella sicurezza che va tanto predicando). E questo avendo la consapevolezza che il passato non si può cancellare, non si può cambiare e non ci può essere restituito. Eppure può essere affrontato, per poter (e dover) pensare che un futuro diverso e migliore sia possibile.

E se il mondo esterno si configura come una via di fuga, La mia vita da zucchina è anche uno dei pochi lungometraggi a rompere con lo stereotipo degli istituti come prigioni gestiti da persone violente e dedite agli abusi. Fondamentale, per la riuscita del film, è la presenza di Celine Sciamma in fase di sceneggiatura, regista dotata di una grande sensibilità nel trattare infanzia e adolescenza (si pensi a Tomboy, ma anche a Quando hai 17 anni di André Techiné a cui ha lavorato sempre in veste di sceneggiatrice). È lei che garantisce l’equilibrio tra dramma e comicità, con quest’ultima sempre seguita dalla malinconia fino ad arrivare alla loro sovrapposizione. Mentre Barras si ispira, oltre che a Loach e Tim Burton, anche a Hergé, creatore di Tintin, nella scelta di adottare un grafica per il viso che sia il più semplice possibile e dotando i personaggi di grandi occhi rotondi per meglio facilitare l’identificazione dello spettatore e la proiezione delle sue emozioni nel personaggio. E sceglie di privilegiare le inquadrature lunghe, al posto del campo/controcampo, per meglio catturare gli sguardi e le emozioni dei protagonisti, ma anche per stabilire tra loro un legame.

Uscito in sordina nel 2016 e disponibile sulla piattaforma Prime Video, guardando La mia vita da zucchina si entra in una zona di mezzo: si ritorna bambini, rimanendo sempre e comunque adulti. L’ultimo grande pregio di questo “piccolo” capolavoro .

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