INTERVISTA AD ALBERTO ANILE

“Totalmente Totò”, uscito da pochi mesi, è il quinto libro scritto da Alberto Anile sul comico partenopeo. Abbiamo intervistato l’autore di questo lavoro saggistico sul mondo teatrale e cinematografico per svelare i dilemmi della vita e della carriera di Totò.

Alberto Anile: Intanto, il dilemma tra il Totò teatrale e quello cinematografico non è ovviamente un dilemma ma sono due facce della stessa medaglia. Spesso vengono ricordate separatamente, perché fanno fatica a sovrapporsi, ma andrebbero invece sempre viste l’una in funziona dell’altra, e viceversa. L’altro dilemma che indago in “Totalmente Totò” è quello dell’uomo, aristocratico in casa e buffone in scena; raccontare questi due Totò per me ha significato anche cercare di capire quanto ci fosse in comune tra il tremendo vigore comico dell’attore e la disumana forza di volontà di un giovane che nasce senza cognome paterno e alla fine riesce a farsi riconoscere imperatore: assoggettare il prossimo con la risata ha secondo me qualcosa in comune col tentativo di riscattare dei natali ingrati.

 Come nasce e perché il suo impegno da storico e filologo del Principe De Curtis?

A.A.: Questa è curiosamente una delle cose che mi chiedono più spesso. Come se occuparsi di Totò implichi un’affezione speciale. Mi interessa da sempre il cinema, lo studio e ne scrivo, e mi interessa la comicità: Totò mi piace come piace a tanti, a quasi tutti. Lo scarto, la decisione di dedicargli un libro, e poi altri quattro, è derivato dalla constatazione che non trovavo risposte alle domande che mi facevo: come si preparava ai suoi film, come faceva ridere a teatro, come funzionava la sua cosiddetta “improvvisazione”. In fondo scrivo i libri che vorrei leggere. 

Il suo primo libro su Totò pubblicato nel 1997 vinse anche un premio letterario. Sostanzialmente quali novità erano maggiormente trapelate dai suoi primi lavori?

A.A.: “Il cinema di Totò” è stato pubblicato da Le Mani vent’anni fa – come passa il tempo, direbbe lui. Dedicandomi al Totò d’epoca fascista, quello meno studiato e più sperimentale, cercai già di trattarlo insieme alla sua dimensione teatrale. Ma la cosa più importante di quel testo è l’aver riannodato il nucleo della sua comicità ai fermenti futuristi che scossero Napoli negli anni Dieci del Novecento, l’epoca in cui il piccolo Antonio cominciava ad esibirsi fra amici nelle cosiddette periodiche. Si è spesso parlato di “cubismi” e “avanguardismi” per la comicità frenetica di Totò ma era fino ad allora mancato un tentativo di spiegarla alla luce delle esperienze storico-biografiche dell’artista.

Nel 2001 pubblica “Totò e Peppino fratelli d’Italia”. Ritenendo i due comici una coppia vera e propria. Molti si sono chiesti se forse De Filippo fosse stato solamente una delle tante spalle del ‘Principe della risata’. In quel libro qual è la sua tesi?

A.A.: Peppino era ovviamente molto più di una spalla, anche se spesso tra i due era la vittima. Con Aldo Fabrizi, altra spalla-non spalla, il sodalizio era già diverso, era quello di due rivali che si beccano fra di loro. I duetti con De Filippo hanno però secondo me una caratteristica rara nel mondo della comicità, quello di una vera e propria “fratellanza”, che permette ai due di litigare e insieme – come dire? – di stare dalla stessa parte della barricata. Non a caso sono fratelli nei loro due film migliori: “Totò, Peppino e la… malafemmina” e “Signori si nasce”, ed in altri sono cugini, come nello straordinario episodio de “La Cambiale”.

Si è a lungo dibattuto sulla censura che ha creato problemi ad alcuni film di Totò. All’epoca ovviamente i funzionari ministeriali censuravano molto: vietavano la distribuzione di pellicole straniere nella nostra penisola, sforbiciavano inquadrature, modificavano battute irriverenti e mordaci. Questo fu l’argomento chiave del suo quarto libro “Totò proibito” (2005). 

A.A.: “Totò e Carolina” è stato un caso clamoroso nel cinema italiano, uno dei film più censurati di sempre. Ed è una cosa che si sapeva, ma poco si sapeva invece di altri dissidi, per esempio su “Guardie e ladri”, “Totò e i re di Roma” e “Totò, Peppino e la dolce vita” o di tagli minimi, come quelli apportati a “47 morto che parla”, che raccontano bene l’aria che si respirava all’epoca. Inoltre, naturalmente, questo lavoro mi ha permesso di recuperare battute che dopo essere state cancellate dal censore, rischiavano di essere eliminate definitivamente col passare del tempo. Tutto ciò non per pura filologia, o solo per il divertimento del brano inedito, ma anche per capire quanto la comicità di Totò fosse intimamente anarchica, quindi sovversiva, e perciò potenzialmente invisa al potere.

Oltre a Totò, lei è anche un profondo conoscitore di Orson Welles. Cosa ci può dire riguardo i rapporti tra il Principe e Welles sul set de L’uomo, la bestia e la virtù (1953)?

A.A.: Dovette essere una delle lavorazioni più assurde della carriera: il principe dei comici e il più grande regista di tutti i tempi costretti da Ponti e De Laurentiis a misurarsi con un testo di Pirandello, messo in mano a un regista intelligente ma disimpegnato come Steno. Una pellicola continuamente minacciata dalla censura, che infatti impose un finale assurdo. Totò non lo voleva realizzare, ma a film fatto si ammira una misura d’interprete eccezionale. Welles, che si abbassò volentieri alla macchietta, nel frattempo cominciò a Napoli le riprese di uno dei suoi capolavori, Mr. Arkadin. Che epoca incredibile!

A suo avviso i film di Totò hanno alimentato leggende quali le perpetue improvvisazioni dell’attore sul set e il suo mancato apprezzamento da parte della critica

A.A.: Probabilmente non esistono più film di Totò sottovalutati o sopravvalutati, ma solo film visti troppo o troppo poco. Tra i film di Totò e Peppino, uno per esempio poco noto, giustamente restaurato dalla Cineteca di Bologna, è “Chi si ferma è perduto”. Tra i titoli meno conosciuti c’è il primo film in cui Totò assume le caratteristiche fisiche che conserverà a lungo, “Il ratto delle Sabine”. Mentre rivedere ancora “Totò a colori” o “Totò sceicco”, che rimangono comunque esilaranti, non aggiunge nulla essendo film molto conosciuti. Le leggende poi delle continue improvvisazioni sul set o il mancato apprezzamento della critica, fanno parte del sentito dire televisivo: un costante mormorio che da mezzo secolo ci accompagna mettendo i bastoni fra le ruote a ogni serio tentativo di analisi e di contestualizzazione. Totò – va detto e ripetuto – non “improvvisava”. Mentre era in vita conobbe – per fortuna – anche un certo apprezzamento da parte della critica; non certo della qualità e della quantità che avrebbe meritato, ma qui il discorso diventerebbe troppo lungo.

Pare che tutti i film di Totò siano fortunatamente sopravvissuti. Ma come per Laurel & Hardy (“Hats off”, 1927) e per Charlie Chaplin (“Her friend the bandit”, 1914) anche per Totò c’è un film andato interamente perduto. Trattasi di “Totò a Natale” (1967). Di cosa trattava questo film (episodio di “Tutto Totò”, serie televisiva) e come mai se ne sono perse le tracce?

A.A.: E’ l’unico episodio che i dirigenti Rai dell’epoca bocciarono in toto; si trattava di uno “speciale”, come “Totò Ciak”, “Totò a Napoli” e “Totò ye ye”, in cui cioè gli sketch di Totò si sarebbero alternati ad esibizioni di altri artisti. Come dice il titolo, sarebbe dovuto andare in onda nel Natale 1966, ma cosa esattamente vi fosse non si sa, né quali fossero esattamente i motivi per i quali venne cassato. So che è stato cercato, e dubito che verrà mai fuori; temo sia andato distrutto. La qualità – scarsissima – degli altri episodi ci può comunque consolare: non credo che abbiamo perduto molto.

Le antologie cinematografiche di Totò (da “Totò Story” a “W Totò”) le ritiene operazioni commerciali inutili o comunque efficaci, anche in virtù del “purché se ne parli”?

Rivedere Totò non è mai inutile, a meno che non si tratti di uno sfruttamento intensivo, come quello fatto dalla televisione alla fine del millennio. In fondo anche Franca Faldini, la donna straordinaria che gli seppe stare accanto negli ultimi quindici anni, e che poi si battè fieramente contro ogni scriteriato sfruttamento postumo, ha sempre auspicato una bella antologia che rendesse merito ai momenti più sublimi di Totò depurandoli dalle necessità e dagli snodi di racconti spesso mediocri e mediocrissimi.

È possibile spiegare e stabilire le ragioni del successo della maschera di Totò dopo la sua morte?

A.A.: Sono in fondo le stesse del suo successo in vita. Totò ha attraversato da protagonista cinquant’anni di spettacolo italiano, imponendosi come maschera ma anche umilmente accogliendo ogni suggerimento che i diversi mezzi d’espressione, le diverse epoche, i diversi pubblici d’Italia gli hanno via via fornito. Perciò, a un certo punto era diventato in grado di rispondere in modo diverso a sollecitazioni e attese diverse, rendendosi sempre differente e così sempre attuale. La sua riscoperta negli anni Settanta è stata la riscoperta di un genio anarchico, che predicava già la fantasia al potere. La sua riscoperta successiva è stata quella del personaggio egoista, disilluso della politica, attento edonisticamente al proprio piacere. Forse un giorno torneranno di moda le avanguardie storiche e allora Totò verrà riesumato come fantoccio futurista, pupazzo da danse macabre. Totò si è diviso in mille rivoli: nel continuo alternarsi di mode e modi, ce ne sarà sempre uno capace di far ridere il pubblico del momento.

Intervista realizzata da Gianmarco Cilento.

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