High Life, la recensione: odissea spaziale verso la salvezza

Lontani dal sistema solare Monte (Robert Pattison) cresce sua figlia su una navicella spaziale assieme ad un gruppo di prigionieri che stanno scontando la loro pena orbitando in direzione di un buco nero. Ma ad accompagnarli, o meglio utilizzarli come cavie, vi è la dottoressa Dibs (Juliette Binoche), che è alla ricerca di nuovi sistemi di riproduzione artificiale e risorse energetiche alternative.

High Life è il primo film di Claire Denis ad essere ambientato nello spazio e, seppur in assenza di gravità, è ancora una volta il corpo con i suoi istinti, desideri e pulsioni ad arricchire la celebre filmografia carnale e vibrante della regista. Film che ricalca sotto certi aspetti quel tanto discusso Trouble Every Day (tradotto in italiano in Cannibal Love – Mangiata Viva) qui declinato in versione sci-fi e con al centro un padre e una figlia che cercano di sopravvivere in un ambiente ostile, non tanto lo spazio, quanto la navicella.

Seppur ancorato a un genere specifico, High Life cambia costantemente direzione. La narrazione frammentata tipica della Denis permette di ricostruire gli eventi narrativi fondamentali, andando a ritroso nell’ambiente spaziale e unendo le costellazioni di elementi seminati sin dall’inizio. Ma non solo: il film è un mosaico visivo e narrativo che rivelandosi allo spettatore amplia, senza rivelare troppo, il suo mondo asfissiante. Il tutto ripreso con un minimalismo bressoniano e con scenografie a metà tra Solaris e 2001, camere fatte di strumentazioni tecnologiche retrò e luci a neon colorate. La fotografia dell’ancora una volta impeccabile Yorick Le Saux alterna terra e spazio variando tra pellicola e digitale, evocando la materialità terrestre e il flusso di dati digitali spaziali.

Il pianeta terra di High Lige è immerso in una nebbia acida post-apocalittica, una Zona tarkovskijana fatta di fitta vegetazione, treni e animali selvaggi, un ottimo contrasto rispetto al cuore pulsante di una navicella spaziale i cui prigionieri sono pronti a divorarsi con lo scorrere dei minuti.

Stato brado simbolicamente rappresentato con il ritrovamento di un’altra navicella in cui l’umano è scomparso, trasformatosi in dei cani selvaggi che minacciano il protagonista. Se in Ad Astra era una scimmia feroce ma quanto di più simile all’uomo ad attaccare Brad Pitt, qui è invece un gruppo di cani selvaggi in cerca di cibo a lottare per la propria sopravvivenza. Un parallelismo che Denis colloca alla fine di continue violenze accompagnate da immagini esplicite che non allontanano, bensì avvicinano, l’uomo alla bestia.  

Un film sensoriale in cui a terrorizzare non è tanto l’ambiente alieno del cosmo bensì la possibile frattura di un equilibrio all’intero della navicella. A tratti brutale ma con momenti lirici da lasciare spiazzati, come la sequenza in cui Juliette Binoche, sussurrando sul ventre femminile di Mia Goth con la speranza di far nascere al suo interno la vita, sprigiona una sequenza onirica in cui una galassia dalle tinte rosee diventa un grembo materno cosmico.

Una costellazione di punti da dover unire tra continui salti temporali e corpi che danno sfogo alle proprie pulsioni sessuali nella geniale fuckbox, una camera per la masturbazione iper-tecnologica che sistematicamente viene usata dai prigionieri. Un’odissea spaziale inquietante ma al tempo stesso salvifica, il viaggio di un padre e una figlia verso un luogo dove poter ricominciare, lontani dagli orrori umani. Non un divenire umano bensì un rinascere alieno, lontani dal mondo in un luogo chiuso, pacifico e inaccessibile all’uomo.

High Life è al cinema grazie a Movies Inspired dal 6 agosto.

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