HAPPY END – #CANNES2017

Happy End di Michael Haneke è un racconto crudele sulla morte della famiglia e la perdita dei valori che hanno definito la società borghese europea. Le prime cinque scene del film sono le riprese orizzontali di un cellulare accompagnate dalla chat di una ragazzina che medita di utilizzare degli psicofarmaci per uccidere ed uccidersi e li sperimenta sul suo criceto. Il punto di vista elettronico del cellulare si fonde con la crudeltà, forse incosciente, di una ragazza che filma la morte con distanza e chirurgica attenzione. Il secondo punto di vista che Haneke ci offre è del tutto meccanico, si tratta della ripresa di una videocamera di sorveglianza dotata di ottica grandangolare, una visione ampia e pulita di un grande cantiere. Per qualche secondo la vita operaia fa il suo corso fino all’istante tragico del cedimento di una parete di cemento: osserviamo passivi il disastro filtrato dall’inquadratura invariabile e dal timecode che scandisce il tempo della tragedia.

Solo dalla settima scena in poi la macchina da presa prende possesso del film e gli attori (tutti nomi di altissimo livello) cominciano a portare sulla scena il racconto di una famiglia francese alto borghese devastata interiormente e aggrappata alla forma. Per alcune scene, scandite dal silenzio e da una violenza che esplode imprevedibile e visivamente distante dalla macchina da presa (come per il cantiere), ci rendiamo conto che la storia sarà raccontata dal punto di vista di Eve (la bambina del cellulare) che  ha appena perso la madre ed è obbligata a vivere con la famiglia del padre. La storia è costruita per rappresentare più generazioni ma focalizza i momenti chiave in due distinte figure agli antipodi: l’anziano patriarca Georges (Jean-Louis Trintignant) e l’ultima arrivata Eve (una giovanissima Fantine Harduin).

Entrambi condividono il disprezzo (che non si confideranno mai) per i loro parenti ed entrambi hanno ucciso esseri umani o animali, entrambi infine desiderano il suicidio come soluzione arbitraria di una vita di convenzioni, forme ed abitudini sociali prive di affetti e significato. Il patriarca e la bambina scompongono l’immagine tradizionale della famiglia, sono simili a ciò che la convenzione vuole solo nella forma. Georges ed Eve sono fra loro sinceri e diretti ma non cercano mai di costruire un legame di affetto, pur riconoscerne l’assenza. Georges ed Eve non riescono a curarsi reciprocamente, a trovare l’uno l’affetto nell’altra e per l’altra e così Haneke ci mostra un mondo gelido e sterile che dal passato non può o non riesce a imparare niente. Haneke racconta anche un futuro senza alcuna speranza o desiderio di miglioramento dove la visione della morte o della vita resta perpetuamente filtrata da uno sguardo mediato dalla camera del telefonino, una lente che rende il reale fittizio e distante come un gioco o una rappresentazione lontana del mondo in cui non sappiamo più entrare o da cui non sappiamo come uscire.

di Daniele Clementi

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