Hammamet, il ‘Presidente’ secondo Gianni Amelio

Hammamet, il 'Presidente' secondo Gianni Amelio

Hammamet (trailer) di Gianni Amelio dà l’impressione di non essere un film coraggioso. Nel trasporre la caleidoscopica figura di un mai nominato Bettino Craxi, tra le figure più influenti del palcoscenico politico dell’intera storia della nostra Repubblica, sarebbe senz’altro facile cadere (o essere accusati di farlo) nel tranello del tifo di fazione. Per questa ragione Amelio si toglie d’impaccio ancor prima di iniziare, tentando di restituire l’uomo, il corpo in declino oramai privo di potere e voce.

Ma c’è qualcosa nel ‘Presidente’ di Hammamet che non funziona mai. Gira in tondo come un cane che si morde la coda e non eleva nessuna dimensione, nè quella logorante di un esilio auto-imposto, nè quella della decadenza di chi da sempre abituato all’attenzione che spetta a chi si trova sulla scena. Il film è infatti ambientato quasi interamente nella reale villa di famiglia nella Tunisia dove il leader del PSI soggiornò fino al giorno del suo decesso, nei primi giorni del 2000. Se è vero però che sulla figura di Craxi (così tangibile nelle fattezze di un Pierfrancesco Favino in stato di grazia) è calato da oltre vent’anni un silenzio assordante, è lo stesso Amelio che nel prendere le misure al personaggio consegna solamente un’impronta esile al di fuori della risonanza mediatica (e temporanea) che il nome della pellicola sta riscuotendo.

La grande condanna (concettuale) da muovere ad Hammamet è in primo luogo quella di non voler parlare ai giovani, di essere grigiamente chiuso su sé stesso e proprio su quelle generazioni omertose accusate di ostracismo alla memoria. E’ un (non)racconto arroccato nel passato ed estremamente incapace (oppure geloso?) di mostrare il corpo di un ‘grande’ a chi negli anni di ‘Mani Pulite’ stava solamente nascendo. Come ci si può lamentare di un silenzio rivolgendosi esclusivamente a dei sordi, così come il regista li intende? Come si può farlo se si mette in scena una narrazione inconcludente e bulimica, che assomiglia più ad una competizione di aforismi che ad una effettiva riflessione sul fine vita? Sopra ogni cosa, come lo si può fare essendo colpevoli di uno dei bad-casting più clamorosi del cinema recente italiano, in grado di annientare alla radice l’intenzione di ri-costruire una personalità nel confronto?

Infatti Hammamet, così com’è inteso, trova il suo procedere esclusivamente nel rimbalzo della figura di Craxi verso le persone che lo circondano nel buen retiro. Mentre, però, Favino continua a dimostrare di essere il più grande attore italiano lavorando in modo sbalorditivo su voce, portamento e prossemica (un lavoro di micro-mimica da brividi), lo scarto con i comprimari diventa così evidente da incrinare irrimediabilmente il lavoro complessivo dell’intera opera. Il principale, ma non unico, accusato è il personaggio di finzione di Luca Filippi, vero scoglio artistico del film. Il minutaggio affidato al suo ruolo è di primaria importanza per la prima ora di Hammamet (complessivi 126’), nelle intenzioni un’ombra di mistero e tensione che cala all’interno della villa tunisina. L’unica ombra a calare in realtà è quella sul volto degli spettatori, vittime di una atroce recitazione fuori luogo in ogni singola inquadratura che finisce per affossare irrimediabilmente il film colpo dopo colpo.

Se Favino cerca di intervenire con la bravura a donare tridimensionalità al suo Presidente, anche Livia Rossi, nei panni della figlia di Craxi, contribuisce con una prestazione a dir poco sottotono (e con una spielberg-face al rovescio) ad appiattire quel dialogo padre/figlia sul quale lo stesso Hammamet ha trovato la ragion d’essere produttiva. Queste problematiche, impossibili da addolcire perché vere mattatrici, si gonfiano ancora di più nei rari momenti di qualità in cui il film offre scambi con interpreti degni di tale nome, come ad esempio nelle brevi ed intense scene con Renato Carpentieri.

Alla fine della fiera (che dopo un tentativo di acquistare dignità ci rituffa nell’imbarazzo) rimane il forte disappunto di aver assistito ad un’opera miope e conservatrice da un punto di vista generazionale, fallace già nelle intenzioni di partenza e minata ripetutamente nel susseguirsi delle interminabili due ore.

Hammamet è nei cinema da ieri 9 gennaio.

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