END OF JUSTICE – L’INCORRUTTIBILITÀ DI UN IDEALE

Roman J. Israel (Denzel Washington, The Equalizer series, Codice Genesi) è un avvocato di Los Angeles, idealista e a tratti estremista, bloccato negli anni ’70 per modo di vestire, ragionare e vivere. Non usa che mezzi pubblici per spostarsi nella città, indossa vestiti larghi, pantaloni “a zampa” e papillon, ha una pettinatura afro cotonata e cammina portando sempre con sé il suo walkie-talkie, cuffie a cerchietto e musica blues su cassetta. Lo studio per cui lavora si dedica principalmente a cause di clienti di basso stato sociale che spesso non possono permettersi le spese legali. Roman prepara le pratiche, il suo socio William si occupa dei dibattiti. Quando quest’ultimo va in coma, il suo modo di porsi schietto e senza filtri, la sua intolleranza verso le ingiustizie, le leggerezze e i favoritismi gli provocano non pochi problemi in tribunale. Ciò determina la chiusura del suo studio e, per lui, la disoccupazione.

George Pierce (Colin Farrell, Minority Report, Animali Fantastici e dove trovarli) è uno stimato avvocato di un grosso studio di Los Angeles, ben vestito, leggermente materialista e più vicino al prototipo dell’avvocato-squalo. Fa conoscenza con Roman per la prima volta perché incaricato di occuparsi della chiusura dello studio e da subito si scontra con la sua mentalità chiusa. Ma al contempo ne riconosce il valore come professionista e perciò tenta di convincerlo a farsi assumere. Naturalmente, Roman oppone una strenua resistenza fin quando, dopo svariati rifiuti e la delusione nello scoprire che la società in cui vive non condivide i suoi stessi ideali, è costretto a incrinare le sue convinzioni fino a cedere all’idea di risolvere i suoi gravi problemi finanziari con un atto illegale. Con la seconda metà del film comincia, così, il fulcro emotivo e moralista della storia che gira intorno ai sensi di colpa di un uomo da principio inflessibile, il quale ha tentato di adattarsi ad una realtà che non gli appartiene provando a modificare se stesso. La vera domanda è: può un uomo così mutare davvero fino in fondo?

La pellicola ricorda visivamente un cerchio che parte dal suo apice: si comincia con il protagonista che si autoproclama colpevole di qualcosa, per poi ritornare indietro e raccontare la storia che lo ha portato a sbagliare, e infine sviluppare la conclusione che lo vede ritornare sui suoi passi. Denzel Washington ha ricevuto una meritatissima nomination agli Oscar come Miglior Attore Protagonista, e difatti è impeccabile e fluido nel passaggio da un tratto psicologico al successivo. D’altra parte, Roman è un uomo reale con un punto di rottura interiore come chiunque, ma con la capacità di riconoscere i suoi errori e condannare se stesso come chi vede sbagliare. Il suo antagonista, George, ha il duplice scopo di opporsi al suo mondo fatto di ribellioni, lotte, onestà e fame di giustizia, ma anche, infine, di rappresentare il punto di svolta, la “morale della storia”. Gli intenti del film sono palesi, non vanno ricercati in azioni nascoste né in simbolismi strategici. La luce è utilizzata in modo molto naturale, le inquadrature non si soffermano sui dettagli e solo una breve sequenza, in cui l’animo dell’avvocato è inquinato dal momentaneo materialismo, è disturbata da sfocature e rumori nel sottofondo, atti ad evidenziare la lotta che imperversa nella sua mente.

Riassumendo, Roman J. Israel, Esq. (titolo originale del film) è tanto una lotta alla mancanza di ideali quanto un tentativo, forse troppo esplicito, di far nascere nel pubblico una fame reazionaria appartenente a quegli anni a cui il protagonista è così morbosamente attaccato.

di Valentina Longo

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