Ema, la recensione: la poetica dello straniamento

Ema

Nero. Rumori ancestrali di qualcosa che brucia, che arde, che distrugge. Un semaforo. Il suo fumo nero si espande nel cielo imbrunito, che sta per lasciare posto a un altro fuoco più grande. Come un pianto lacerante, le gocce fiammeggianti cadono sull’asfalto. La mdp retrocede lentamente. Una donna con un lanciafiamme si allontana indifferente, priva di emozioni, apatica. Il montaggio stacca nettamente. Eccola di spalle che osserva il panorama, mentre la sua anima cerca di ritrovarsi in uno specchio d’acqua senza alcun risultato. Nero. Scritto grande e in bianco, appare il titolo: Ema.

Si apre così un film sperimentale e psichedelico (qui il trailer). Un film che tratta di una ragazza, Ema, e del suo dolore che sfiora quasi l’apatia e che non dà spazio a nessuna identificazione. Una danza arcaica, in controluce, montata a intermittenza. La mdp gira intorno ai personaggi, entrandogli quasi dentro, per poi distanziarsi bruscamente e porsi in un’inquadratura di quinta. Ciò, stilisticamente, appare come un avvertimento: “non provate ad entrare”. Non provate a immedesimarvi in personaggi simili a lucertole. Lucertole con il sangue freddo, che cercano a tutti i costi qualcosa che possa scaldarle. Lucertole senza coda. «Dovete fare come le lucertole quando gli tagliano la coda. Cosa fanno? Si disorientano. Vanno fuori di testa», afferma il personaggio di Gael Garcia Bernal. Nel silenzio e nel dolore, che non può trovare espressione, riecheggia una frase: «Un giorno ci perdonerai».

Personaggi abbandonati a se stessi. Bambini soli, fragili che cercano un posto dove qualcuno possa occuparsi di loro. «Io ero una bambina e tu non ti sei curato di me». Un posto che trova luogo in un nessun dove, dove il silenzio grida: «È colpa tua». Dove il rumore assordante della musica sussurra: «Staremo bene?». Un film d’inquadrature, di musiche e piccole frasi. Un film di sentimenti, che risuonano nel vuoto di un bipolarismo di colori, di luci calde e fredde, che sfociano in citazioni stilistiche, come quella di Love di Gaspar Noé. Di luci che trovano, nella disintegrazione personale e del mondo e nella distruzione dell’altro, l’unico modo con cui sopravvivere al dolore. La musica e la danza sono usate per non pensare. Per non ricordare la lacerante disperazione in cui si è quotidianamente prigionieri e dove, nel vuoto, tutto brucia davanti agli occhi vitrei e apatici dei protagonisti.

Con Ema (presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografia di Venezia e mostrato su MioCinema il 13 giugno), Pablo Larrain (El Club; Neruda; No-I giorni dell’arcobaleno; Jackie) decide volontariamente di disorientare lo spettatore, così tanto, da farlo diventare, solo per la durata del film, anempatico e apatico, egoista e indifferente, come la sua protagonista Ema. Un personaggio odioso, con cui razionalmente è impossibile identificarsi. Una donna che visceralmente siamo portati a odiare, ma con cui, inconsciamente, la regia ci porta a condividere il suo stato d’animo, lasciandoci un senso di vuoto, di freddezza, priva di emozioni. Infatti, se, trasgredendo ai principi base di ogni manuale di sceneggiatura, non si ha alcuna scena “Save the Cat”, in cui, nonostante l’immoralità della protagonista, si possa comunque trovare un aspetto in cui immedesimarsi. La regia, entrando con le inquadrature dentro i suoi stessi personaggi e, allo stesso tempo, buttandoci bruscamente fuori, ci provoca lo stesso senso di straniamento che Ema prova costantemente nei confronti della vita e dei sentimenti tipici della specie umana. Uno straniamento che scoppia nelle ultime scene, lasciando agghiacciati gli spettatori.

Sguardi spenti. Ema guarda fissa in macchina. Stacco. Una pompa di benzina lascia lo spazio a un pessimismo profondo. A un vuoto dove le macerie non possono trovare una rinascita. Dove bisogna continuamente e atrocemente distruggersi e disintegrare gli altri, lasciando tutti apatici, nell’unico e primordiale tentativo di sopravvivere. Sopravvivere all’incapacità di essere realmente vivi.

Dunque, tramite Ema Pablo Larrain sperimenta con il dispositivo cinematografico. Lo porta all’estremo, ma allo stesso tempo sprigiona la potenza viscerale delle immagini che solo il cinema è in grado di produrre.

Ti potrebbero piacere anche

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Ho letto la privacy policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679 (GDPR) e del D.Lgs. n. 196 del 2003 cosi come novellato dal D.Lgs. n. 101/2018.