CHARLEY THOMPSON – QUANDO LA REGIA DIVENTA PAROLA

Un tuffo nell’oscurità di un’anima pura. Una ricerca di stabilità e protezione. Una corsa scoordinata negli anfratti della mente e nella povertà di alcune anime. Una storia di amicizia, di perdite, di distanze, di amore malato, amore puro. Un film sulla paura e sulla solitudine. Un romanzo di formazione trasformato in sequenze cinematografiche.

Forse Andrew Haigh pensa il pubblico come fosse un bambino. La sceneggiatura non è altro che un “aeroplanino” fatto col cucchiaio. La pappa che ci aiuta a ingerire è un continuo accostamento tra il protagonista umano e quello equino, a partire dal titolo. Da quando inizia, fino al principio dell’ultimo atto ci troviamo di fronte a una forzatura dello sguardo e della percezione: dovete capire che Charley e Pete sono la stessa cosa, la stessa anima. Ci dice questo, fino allo sfinimento.

Avere fiducia nei propri mezzi (e nel pubblico) spesso diventa la scelta migliore. Se infatti Haigh si fosse limitato a parlare attraverso la mdp avrebbe ottenuto un risultato strepitoso. La regia di Charley Thompson (Lean on Pete) è straordinariamente efficace. Potremmo fare a meno dei dialoghi per affidarci totalmente all’immagine filmica, dato che questa si fa parola, metafora, ricerca psicologica e intellettuale. Charley, il protagonista (interpretato dal promettente Charlie Plummer) viene descritto dal regista esattamente come viene descritto Pete (il cavallo di cui il ragazzo si occuperà): lo vediamo oppresso tra le ben studiate scenografie e i bordi dell’inquadratura, quasi come scomparisse al centro dell’immagine. Una sorta di gabbia simile ai box in cui vengono tenuti i cavalli. L’inquadratura si ripete più volte, è struggente.

Entrambi corrono. Una corsa scomposta, senza una meta, senza una motivazione. Sono predestinati, devono correre, devono raggiungere qualcosa che neppure loro conoscono. Un senso di protezione e libertà che entrambi vanno cercando. Una sicurezza che vorrebbero dare e ricevere. Forse per questo corrono. Non è un caso, infatti, che la chiusura del film è proprio una corsa, questa volta ordinata, con una meta, con una stabilità ritrovata, frutto di un lungo, pericoloso e difficoltoso percorso che ha portato al tanto agognato obiettivo, alla fine della tragica corsa, al traguardo. È dunque superflua ogni parola quando ci ritroviamo davanti agli occhi una serie di immagini tanto potenti e curate da non lasciare spazio ai dubbi. Gli unici dialoghi degni di nota, anche se bisognosi di una leggera tosatura, sono quelli tra i due protagonisti: finalmente Charley parla di sé e lo fa col suo alter ego animalesco, con la sua parte più sincera. Si mette a nudo solo dialogando col suo fido compagno.

Nonostante si barcameni tra scelte di grande rilievo artistico e scelte meno comprensibili ai fini dell’opera e della sua leggibilità, il film si presenta come uno dei lavori più interessanti in sala. Adatto per chi vuole perdersi in una storia sentimentale (non scontata e mai banale in questo caso), una di quelle appartenenti alla quotidianità e non soltanto ai racconti, ma anche per chi presta più attenzione alla tecnica e alla costruzione filmica.

Di Pietro Bonaccio

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